L’uso di una
punta quale strumento per produrre segni, è uno dei mezzi di espressione più
antichi dell’uomo. Risalgono all’età della pietra, infatti, i primi esempi
d’arte figurativa ottenuti incidendo la roccia con selci ben affilate. Con la
diffusione dei metalli, la pietra venne progressivamente abbandonata, a
vantaggio dei nuovi materiali che offrivano una resa maggiore in termini di
durezza e resistenza e che consentivano, soprattutto, di utilizzare supporti di
diversa materia.
Ma l’effetto provocato da una punta metallica su di una superficie - come ci
si accorse ben presto - non si limitava alla sola incisione: il processo di
ossidazione, infatti, conferiva colore alle tracce metalliche, come aveva già
osservato Plinio il Vecchio a proposito dei segni lasciati sulle pietre
calciche.
Il primo metallo che venne impiegato in guisa di primitiva matita fu il piombo,
preferito per le sue proprietà di malleabilità e di docilità d’uso.
Tuttavia, le qualità del materiale ne costituivano, allo stesso tempo, il
limite insuperabile: la scarsa durezza deformava presto le punte, rendendole
imprecise e inutilizzabili per l’esecuzione di opere finite.
Maggiori risultati si ebbero, invece, con le punte d’argento che permisero, a
partire dal XIV secolo e per buona parte del Cinquecento, di realizzare opere di
altissimo valore artistico, caratterizzate da tracce più nitide, dalla presenza
dei chiaroscuri, di diversi piani di profondità, di un più alto grado di
finitura. Si presume che sia stato impiegato, per le punte, anche l’oro, ma
l’ipotesi non è suffragata da reperti documentari.
Di pari passo con le tecniche di incisione, andò sviluppandosi anche la ricerca
e l’individuazione dei supporti: dai papiri alle tavolette, dalle membrane
alle carte medievali, alle carte moderne. Ed è proprio la preparazione della
carta ad incidere in maniera fondamentale sulla resa delle tracce metalliche
ossidate o, meglio, sulla previsione dei toni cromatici che l’opera dovrebbe
assumere con il trascorrere del tempo e con l’azione del processo ossidante
dell’aria. Di questo si resero conto, lasciando considerazioni e appunti,
artisti quali Leonardo e Cennini.
Dalla metà del XVI secolo,
però, le testimonianze di questa tecnica divengono sempre più labili, le
tracce del disegno metallico ”si fanno via via più rare, tanto che si può
considerarne esaurita la stagione e la fortuna. Si impongono altri strumenti di
uso più immediato, di più veloce esecuzione e che non necessitano,
soprattutto, della complessa fase di preparazione della superficie. Il
“disegno metallico” è, infatti, una tecnica lenta e difficile, che non
permette alcun tipo di ripensamento o di correzione e che richiede un lungo
periodo di assimilazione, di apprendimento e di maturazione artistica.
Anche per questo, la
riscoperta delle punte metalliche appartiene alla contemporaneità dell’arte:
solo in questi ultimi anni, infatti, e soltanto grazie alla tenacia e al rigore
creativo di Giuseppe Borrello, si è sperimentata una rivisitazione della
tecnica, non solo limitata alla riproposizione, in chiave moderna, della
tradizione classica, ma volta anche alla ricerca di materiali inediti, capaci di
divenire altrettanti strumenti pittorici. E’ il caso - oltre che dei già noti
argento e oro - del rame, del palladio, del platino, del titanio, saggiati per
la prima volta dall’artista torinese con esiti di sorprendente suggestione; è
il caso della preparazione dei fondi, ottenuta attraverso numerose e impegnative
prove chimiche che hanno reso “scrivibili” i supporti cartacei, sia bianchi
che colorati.
Si impone, nuovamente, il
modello della “bottega” antica, intesa come officina di ricerca e di
cultura, nella quale l’attenzione minuziosa ai gesti e ai materiali rende
ancore più pregnante, più umano il legame fra l’artista e la sua opera.
Si diceva della complessità dell’esecuzione: una volta approntato il
supporto, il trasferimento del segno avviene incidendo la superficie con una
corretta pressione della punta. Ed è proprio il millimetrico accostamento di
infiniti tratti che andrà a formare le immagini, arricchite da un sapiente
chiaroscuro e nobilitate da una proprietà cromatica finale determinata,
appunto, dal processo di ossidazione dei metalli. E se sappiamo che le tracce
lasciate dalla punta di rame tenderanno al verde, quelle d’argento al marrone,
che il segno dell’oro virerà verso il nero, non si è ancora in grado
di stabilire, per la recente loro sperimentazione e per il lungo periodo
necessario all’ossidazione, la risoluzione cromatica che assumeranno le tracce
di palladio, di titanio, di platino.
Ma proprio in questo sta la forza e l’unicità di questa tecnica, nuova e
antica ad un tempo: non cessando l’ossidazione, le opere a punta metallica
conosceranno una lenta, inesorabile mutazione, un lento, ma continuo cambiamento
cromatico. Un’opera dinamica, dunque, nella quale il tratto, il disegno, il
segno si fanno suggestioni di colore, si fanno pittura.
Torino,
15 dicembre 1999
Rosaria
Barone