La mia relazione, come appare chiaro dalla tematica che affronta, non vuol essere una pedante esposizione nozionistica sulle tecniche, sui periodi, sugli stili. In altri termini non vuol presentare il fenomeno artistico dal punto di vista della nozione e della conoscenza, oserei dire da una prospettiva sgarbiana, perché non mi parrebbe di proporre alcunchè di nuovo, dato che queste sono cose che ogni ascoltatore interessato può rintracciare su un buon testo di storia dell’arte. Io, poeta e scrittore, voglio invece tentare di presentarvi il fenomeno artistico che è l’oggetto di questo convegno, sotto un aspetto nuovo, che ci inviti alla riflessione e che ci guidi ad assaporare l’arte nella sua vera essenza, come bisogno di comunicazione che spinge l’artista a trasmettere dal micro-cosmo del suo Io al macro-cosmo del circostante, i suoi sogni, la sua interiorità. Ma perché uso questi termini? Per Herder la pittura è sogno; per Humboldt la pittura e interiorità! Possiamo ben accettare queste due definizioni ma soltanto se il sogno e l’interiorità vengono comunicate, attraverso la pittura, al macro-cosmo. Altrimenti sarebbe come dire che la poesia è solo pensiero e non anche suono o parola. A me personalmente, soprattutto come poeta, piace immaginare la pittura come un vero linguaggio attraverso cui il pittore comunica al macro-cosmo le sue esperienze, la sua verità, la sua visione del mondo. Indubbiamente i due linguaggi, quello pittorico e quello poetico, si differenziano in modo abissale, sia per quanto riguarda le tecniche, sia per quanto riguarda l’impatto col macro-cosmo. Il linguaggio pittorico sfrutta sopratutto l’aggressione cromatica, per cui il messaggio trasmesso dal giallo, dal rosso, dal bianco, dal blu, dal verde, non ha bisogno di traduzione essendo percepito, sia pure con diverse sfumature, in modo uguale in Brasile o in Germania, in Norvegia o in Cina. Prova ne è i1 fatto che i turisti di tutto il mondo visitano le varie pinacoteche traendone uguale godimento. Ciò purtroppo si presta ad un involgarimento e ad uno svilimento del linguaggio pittorico, perché permette a certi crostaioli di gabbare per pittura ciò che è invece soltanto una meccanica distribuzione di forme e di colori diversamente sistemate ma sempre individualmente identiche, nella quale il valore della cornice finisce con l’assumere un valore molto maggiore di quello del dipinto. Nella poesia ciò non può verificarsi, perché un linguaggio poetico, per essere capito e riflesso, deve essere tradotto nei vari idiomi e in questa traduzione, i1 più delle volte, ne vengono stravolti il significato e 1’armonia. Ne consegue quindi che mentre il linguaggio pittorico ha un’incisività più immediata, quello poetico ha una penetrazione più sofferta, più approfondita, più meditata. Ma nonostante ciò, i due linguaggi spesso s’incontrano per concorrere a formarne uno comune che accoglie in sè le caratteristiche di entrambi. Mi potrei rifare ad Omero, Virgilio, Dante e tanti altri maggiori, ma, in questa sede ed in omaggio a1 nuovo di cui parlavo prima, voglio ricordare i pittogrammi del poeta calabrese Vincenzo Leotta, che io definirei gemello in arte a Giuseppe Borrello, perché come lui, vitalizza fisicamente i suoi colori fino a farli divenire audaci, aggressivi, saturi di espressività. Esaurita la parte generale, passiamo a scoprire come il poeta rivede l’arte pittorica di Giuseppe Borrello, attraverso la nuovissima tecnica della penna biro su cartone, che riesce a creare una pittura perlinata. Si, questa umilissima penna biro, quella che ognuno di noi usa per firmare cambiali o assegni, per scrivere parole d’amore o di odio, per esprimersi in versi o in prosa, nelle mani di Giuseppe Borrello ha acquistato doti magiche. Il Borrello si impadronisce di uno strumento che sembrava essere solo del poeta e dello scrittore e lo usa, con rara maestria, per trasmettere i1 suo linguaggio pittorico. Nelle sue mani le biro si trasformano in eteree danzatrici fluttuanti nei veli colorati, in pattinatrici che lasciano segni sfumati sulla pista di ghiaccio, viventi solo per la vita loro trasmessa dalla mano dell’artista. Cosi nell’opera del Borrello le miscele cromatiche più nuove, estrinsecate dalle sue magiche biro, rivoluzionano la gamma dei colori, facendo si che i colori tradizionali vengano a pregnarsi a vicenda, creando linee soffuse che si allargano in aree pittoriche ed esprimono una sofferta poesia interiore (vedi Humboldt) che l’artista, non riuscendo o non volendo esprimere in metrica o a parole, diffonde intorno a se nel linguaggio fantasmagorico (il sogno di Herder) della sua pittura. Anche se la sua principale ispirazione appare prevalentemente rinascimentale, la sua e un’opera che non conosce limiti di tempo ne per quanto riguarda il passato, ne per quanto riguarda il futuro, perché il messaggio trasmesso dai volti delle sue figure è di ogni tempo e di ogni latitudine, ossia copre le aree essenziali del macrocosmo: il tempo e lo spazio. La sicurezza della sua mano e la sua quasi maniacale ricerca del particolare, mi ricordano molto il grande maestro Annigoni, mentre la ineguagliabile sua capacità espressiva, mi richiama alla mente i versi di Montale. Una recente esperienza è servita ad aumentare la mia stima e la mia ammirazione per il maestro Borrello. Ho proprio in questi giorni avuto la possibilità di vedere da vicino l’arte grafica di tre grandi maestri: Salvador Dalì, Picasso e Mirò. Ebbene mi sono potuto rendere conto della grande verità affermata da Ingrés quando ci dice che “le dessin est la probité de l’art. E’ infatti proprio nelle linee del disegno che l’artista manifesta il suo valore, la sua onestà di artista figurativo. E ammirando l’arte grafica dei tre grandi, dalla linea ingenua e primitiva di Mirò, a quella aggressiva di Picasso, fino a quella complessa come il suo animo, di Salvador Dalì, ci si rende conto di trovarsi davanti a genii dell’arte. Ma soprattutto mi voglio soffermare sul grande maestro di Figuéras. Infatti il tratto sofferto e tormentato di Dalì (a volte sposato con la pittura), in cui le linee curve e tondeggianti si fondono armonicamente con i tratti rettilinei imperiosi e marcati, lasciando al chiaro-scuro il compito di sottolineare l’intenso pathos dell’anima dell’artista, mi ricordano molto la potenza espressiva di Giuseppe Borrello e il suo virtuosismo nell’armonizzare il segno incisivo col segno descrittivo. E nella sua opera mi pare di veder realizzato il concetto stesso di Salvador Dalì “chaque ligne d’un dessin doi ètre un gèodesique”, ossia ogni linea d’un disegno deve essere una componente di un’unità globale armonica e dinamica come la nostra Terra. Tante sono le opere del Maestro Borrello sulle quali vorrei soffermarmi a riflettere insieme a voi con la mia sensibilità di poeta, ma voglio almeno ricordarne tre: VOLTO DI CRISTO (fig.1): in quest’opera il volto del Cristo, ancorchè non siano evidenti gli occhi che sono lo specchio dell’animo, rivela la cosciente premonizione della morte, ma non come di colui che la subisce passivamente, ma come di chi sa di compiere un doloroso sacrificio che lo pone al disopra degli altri umani. La testa e la corona di spine fanno un unico corpo con il legno della croce, come fossero frutti di esso e come in effetti saranno dopo la crocefissione. APOCALISSE 2000 (fig.2): Anche in quest’opera i corpi umani e le cose intorno formano un complesso senza stridori: il Cristo, frutto acerbo del triste albero che lo sostiene, è al disopra degli umani e soffre per la loro incapacità di soffrire. L’opera rivela una filosofia esistenziale profondamente religiosa, ma anche profondamente conscia della debolezza umana. TESTA DI VECCHIO (fig.3): Quest’opera meravigliosa che richiama vagamente il volto di un grande, evidenzia due elementi in netta contrapposizione: al chiaro processo di disfacimento dei tessuti organici, segnato dalle pliche e dalle rughe, si oppone, come a voler fermare tale processo di decadimento, uno sguardo di sfida che sembra ammonire i1 tempo ricordandogli che potrà carpirgli il suo corpo, ma non il suo pensiero, la sua creatività, che resteranno perenni e si trasmetteranno per l’eternità. In quest’opera soprattutto, vedo i1 Borrello come poeta, accanto a me, che antepone alla caducità delle forme, l’eternità del pensiero. Concludo 1a mia relazione (sperando che sia voi che il maestro Borrello vogliate perdonare la mia presunzione) con un omaggio personale a tanto artista, un mio pittogramma dedicato alla sua arte cromatica.
COLORI
Una stella cadente adorna di fregi dorati la nera notte profonda. Un aereo scalfisce l’azzurro col doppio binario che sfuma nel bianco. Una rondine segna, veloce proietto animato, un garrulo grigio cangiante. Un pigro gabbiano sorveglia cinereo l’argento increspato del mare. Un sole sanguigno che esplode e trasforma in deserto di sabbia il bosco più verde il fiume più fresco, più lieto. Il gaio gorgheggio d’un bimbo accompagna il lamento dell’avo canuto. La pelle rosata di donna che cambia colore alle prime carezze d’amore. La vita dell’uomo e scandita da versi, da linee che sfumano in mille colori che vivono in rime od in suoni.
Sant’Agata di Esaro, agosto 1993 Francesco Tarzia
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Fig.1.G.Borrello - Volto di Cristo - 1991
Fig.2. G.Borrello - Apocalisse Duemila - 1982
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