“L’Assoluta verità di Giuseppe Borrello”                   

 


La più immediata riflessione che viene in mente innanzi ai disegni e alle grafiche di Giuseppe Borrello riguarda la loro estraneità (in ottica vuoi tecnica che tematica) alle problematiche di un tempo che, comunque, le ha suggerite ed alimentate.

La tensione di Borrello, infatti, a coniugarsi e a congiungersi a taluni aspetti del vero (un vero apparentemente osservato al di là di ogni possibile riferimento ed intervento critico), attraverso l’ostentato recupero di accenti consolidati, o mediante rivisitazioni di un esplicito patrimonio storico-culturale, induce certamente a separarne la visione dai profili d’una inventiva attuale e a suo modo interlocutoria. Il che intende anche conflittuale e per certi versi contraddittoria.

Ad osservarne, ancora e ad esempio, certi ritratti di familiari (fig.1) (ma si pensa anche a soggetti di altra natura), si coglie un’accentata volontà  di mimesi che si traduce, poi, nell’organizzazione ritmica e sistematica di un segno che sembrerebbe coinvolgere l’osservatore nei termini di un vero e proprio sconcerto emozionale. Borrello insegue, infatti, non solo la forma ma, con essa,la pur minima piega, la pur impercettibile ombra, ogni benché tenue rialzo luminoso; ogni accento, infine, che conduce al rivelarsi di una visibile sembianza. La quale, soffermandoci sui ritratti, assume maggior rilievo per esser concepiti su un fondo per lo più neutro che amplifica di per sé proprio il tessuto dei minimi segni. Apparenza, si diceva. E con essa, ovviamente un carattere. Lo stesso che sembra offrirsi per il vicolo di un paese, ove nulla sfugge all’orizzonte dell’occhio. Una pietra, un vaso di fiori, una ringhiera, panni stesi ad asciugare al sole, una scalinata sberciata, e quanto altro. Non già a ricreare un’atmosfera, ma a rifletterla per com’essa è. (fig.2)

Nel riflettere, appunto, ciò che è nella realtà, è ovvio che quanto si accennava circa il possibile allontanarsi dell’autore dai confronti di un avvertito linguaggio contemporaneo, si dà in buona evidenza. Eppure, se ci si rimanda a certa tipologia d’una narrativa attuale -cogliendola per gli aspetti ed i caratteri di un evidente spirito a suo modo illustrativo: un’illustrazione alta, s’intende - Borrello si inserisce in una condizione che non rifiuta - o ignora - talune tensioni. Della propria immagine facendo il luogo e il limite di un comportamento di osservazione. Il luogo e il limite di una ricerca di assolute verità.

Verità ch’egli intende il più oggettiva possibile, pur se nulla è obiettivamente oltre la soggettività. Ciò chiaramente implicando una relazione di riferimenti impliciti.

I quali divengono chiarissimi, di converso, là dove il suo segno dichiaratamente ripercorre (foss’anche reinventando un’iconografia) antiche immagini e soluzioni. “L’anima di Giuseppe Borrello - ha scritto Paolo Levi - è rivolta alla lezione degli antichi”. Proponendo in tali termini, nella prospettiva cadenzata di un luogo, la propria ascendenza culturale. Il tutto nella logica d’una composizione ferma. Ove ogni personaggio appare mimare la propria gestualità. Ove ogni confronto e reciprocità si avverte nella stasi ed equilibrio di un racconto insistito. Ove pur s’avverte, per un’ombra che si proietta e che a  suo modo interlocutoriamente amplifica la complessità narrativa, l’utilizzo d’una voce simbolica.         

            Probabilmente non nuocerebbe a Borrello una libertà maggiore. Si avverte, infatti, che la  sua coscienza fa vigile guardia a che egli non esca da una condizione. Per la quale si ribadisce come massimo valore l’accennato rapporto mimetico. Ma è questione di natura. Né a tutti i costi lo si vorrà diverso da quel che è, e sa essere.

 

    Roma, maggio 2000                                                                                   Domenico Guzzi     

 

 

 

 

Fig.1. G.Borrello - "Annarita" -
1996

 

 

 

 

Fig.2. G.Borrello -
"S.Agata, via Timpe"
1990