L’impressione maieutica e meta-narrativa che suscita l’opera di Giuseppe Borrello introduce in atmosfere talliti e sensoriali di compiuta sintesi immaginativa. La freschezza del gesto di questo maestro contemporaneo genera un’infinita emozione, la stessa che si ha di fronte a coloro che variamente hanno offerto un contributo davvero originale alla storia dell’arte, non limitandosi alla tautologica o calligrafica riproposizione di temi e motivi già ampiamente frequentati, e per di più senza la benché minima attenzione a un convincente e strutturato apparato tecnico-esecutivo. A1 contrario, dinanzi all’opera di Borrello, occorre rilevare quanto un’armonica concertazione di canoni espressivi lo abbiano condotto verso una raffigurazione musiva e allegorica del soggetto, a una sua rappresentazione, profondamente lirica, che dona un’aggettivazione fortemente introspettica all’insieme. Nel segno della renovatio e nel recupero di una manualità oggi troppo spesso abbandonata a favore dell’impiego o dell’ausilio di sbrigative modalità assemblative, Giuseppe Borrello torna a parlarci attraverso il linguaggio più schiettamente proprio dell’artista: quello del disegno, ove possono prendere forma non solo elementi figurativi, ma anche coessenziali componenti simboliche. E proprio alla non-apparenza, all’oltre che sta in tutti noi, si rivolge l’artista con incisiva apertura dottrinale, nella credenza, o meglio nella certezza, che solo dalla poesia del gesto possa davvero maturare quella bellezza autentica di cui qualsiasi soggetto e intrinsecamente portatore. Una bellezza che non è da intendersi affatto secondo superficiali dettami che talvolta paiono suggerire certi atteggiamenti propagandistici d’impronta modernista o, peggio ancora, consumistica. A1 nostro pittore interessa infatti la bellezza dell’essere in quanto tale, la sua peculiarità e irripetibilità all’interno dell’universo cosmologico. Giustamente Paolo Levi, nel saggio L’eleganza di un segno infinito, dedicato a Borrello, ricorda l’interrogativo che si pose E. H. Gombrich di fronte a un dipinto di Rubens, circa la possibilità di stabilire, con assoluta certezza, che cosa sia bello e che cosa sia brutto nel campo dell’arte. Lezione, questa, che viene dai classici: Michelangelo, Leonardo e Raffaello, che proprio con i loro disegni hanno rivelato un’interiorità sino ad allora non sufficientemente indagata, lavorando, quasi paradossalmente, sulle fascinose linee che vanno definendo ciò che gli occhi colgono e l’anima nutre e attribuisce senso, presenza e significato. Guardare a questa purezza significa perciò appropriarsi di una lucida consapevolezza: quella della centralità del disegno, come possibile veicolo di interpretazione della realtà, anche se, naturalmente, non unico ed esclusivo. D’altra parte, gia Cennino Cennini (autore opportunamente ricordato, a proposito di Borrello, anche da Rosaria Barone, in un originale contributo sulla tecnica del maestro) nel quarto capitolo del suo celebre Trattato della pittura, avvertiva: “El fondamento dell’arte...è il disegno e‘l colorire”. Sempre scorrendo gli scritti di questo eclettico pittore e studioso toscano, si possono rilevare alcuni dati fondamentali per capire la continuità fra la migliore tradizione realista italiana e il nostro artista, nei confronti della quale egli si pone in posizione di rispettoso ascolto, applicando così il principio vasariano per cui: “il disegno non può avere buon’origine.. se non s’ha studiato pitture d’eccellenti maestri...” In particolare, laddove Cennini offre degli importanti suggerimenti sul momento che precede l’esecuzione, accennando ad antiche ricette a base di polveri naturali e persino animali (“bisogna sapere che osso è buono,” scrive. “Togli osso dalle cosce e dalle alie delle galline o di cappone) (fig.1), attraverso cui e possibile favorire la presa sul supporto della lieve traccia lasciata dalla punta metallica, sia essa in oro, argento o rame, come vuole la tradizione, oppure in palladio o in titanio, impiegati con successo da Borrello. Oltre ai tre grandi sopra ricordati, pare opportuno stabilire un rapporto di continuità anche con gli illustri disegnatori vissuti tra la seconda metà del Trecento e il Quattrocento: da Lorenzo Monaco a Parri Spinelli, da Simone Martini ad Antonio da Pisano, detto il Pisanello. A quest’ultimo, Borrello pare fortemente legato per una componente di magistrale tensione vibrazionale, la quale è ben esemplificata da una linea pulita ed essenziale, capace di dare vita ad opere di compiuta plasticità. Se si confrontano, ad esempio, lo Studio di un cane (cm. 19 x 22) (fig.2), conservato al Louvre, del Pisanello, con Fido (cm. 34 x 24,5) (fig.3) di Borrello, si nota un’identica attenzione per le parti anatomiche dell’animale, le quali scandiscono la postura sottolineando l’insistenza dell’apparato scheletrico sul pelo, e una altrettanto scrupolosa attenzione a cogliere il soggetto in modo diretto, lasciando cioè da parte ogni elemento meramente decorativo o superfluo. Il confronto con i classici si fa ancora più serrato, anche se apparentemente ardito, se la materia del raffronto è data dalla figura umana. Prima di far cenno a questo aspetto della poetica creativa di Borrello, occorre ricordare che un’altra componente davvero innovativa proposta dal maestro è data dall’utilizzo della penna biro, strumento che, in un’ideale storia degli “arnesi ad inchiostro”, costituisce l’ultimo anello della catena, iniziata con le primissime penne d’oca. Siano lavori monocromi o policromi, il risultato è sempre di sorprendente carica espressiva, tanto da stupire continuamente l’osservatore, al punto di indurlo verso un’accurata osservazione anche dei particolari, minimi, ma assolutamente essenziali e costitutivi, dell’opera. E allora ecco la possibilità di un rispettoso riferimento alle figure dei grandi maestri: alla serenità di certe apollinee figure di Botticelli, all’intimità di quelle di Pietro da Cortona, sino all’intensità degli studi di Annibale Carracci. Dinanzi ai capolavori di questi autori, l’incisività e la sottile venatura intimistico-allegorica di Giuseppe Borrello s’inserisce magistralmente, proprio perché guardando a questi insuperati e insuperabili esempi il nostro pittore ha creato uno stile proprio, originale, dando ulteriore stimolo anche ai giovani che con entusiasmo si accostano alle Beax Árts, interpretando così una funzione sociale che può essere assunta soltanto da pochi. Cremona 15 maggio 2001 Simone Fappanni
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE. F.Negri Arnoldi e S. Prosperi Valenti, Il disegno nella storia dell’arte italiana, Nis; catalogo G.Borrello – L’eleganza di un segno infinito, presenta-zione di P. Levi, Studio S/ Grafica Bisignani; C. Cennini, Il libro dell’arte, Longanesi; G. Vasari, Le Vite, Einaudi.
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